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30 settembre 2013

Non siate piante grasse!!!



"In te c'è più di quanto tu non sappia, figlio dell'Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d'oro, questo sarebbe un mondo più lieto."
Thorin Scudodiquercia a Bilbo Baggings in Lo Hobbit - pag. 353



Mi piace riportare alcuni stralci del discorso di inizio del nuovo anno scolastico del preside della scuola di Diego, è un discorso intenso, accorato, che se me lo avessero fatto quando io andavo a scuola...forse...alcune cose nella mia vita avrebbero preso una piega diversa. Incitare, incoraggiare, spingere verso la vera conoscenza....ai miei tempi...non si usava...e forse neppure ora....se mi guardo attorno....le teste pensanti sono ancora molto molto poche...e quindi un discorso così viene accolto con gioia, gratitudine e con il desiderio di mettere in pratica tutto ciò che io e non solo mio figlio abbiamo imparato fino ad ora. La lettura di queste parole mi ha dato ancor più il convincimento che "essere una pianta grassa" è poca cosa se si può diventare sequoie!!
 
Cari ragazzi, avete da fare a partire da oggi due strade: una che avete già incominciata, quindi è una strada che continua, l’altra è una strada nuova che, come potete facilmente immaginare, è cominciata oggi per voi. La strada che avete già incominciato, quella che continua, è una strada importantissima ed è la strada della vostra crescita come persone, la vostra crescita fisica, ma è una strada, se ci pensate, che se anche non andaste a scuola percorrereste comunque. Nei prossimi anni vi succederanno, da questo punto di vista, tante cose, andate incontro a tanti cambiamenti: diventate più alti, diventate più belli, diventate più simpatici anche, magari qualcuno in particolare; in questo percorso di crescita talvolta si cresce in modo un po’ disordinato, magari a qualcuno crescono prima le gambe e poi il resto del corpo, ma poi si arriva alla misura giusta. Magari a qualche maschietto cresce un po’ troppo presto la barba, magari a qualcuno che la vorrebbe cresce troppo tardi, ma questo percorso, questa serie di novità importantissime e bellissime avverrebbero  anche se voi a scuola non ci andaste … anzi, potremmo addirittura dire che se anche dimezzaste quello che mangiate questo cammino di crescita continuerebbe.

La strada nuova che incomincia, la strada più bella che siete chiamati a compiere, sulla quale camminare insieme, è la più grande avventura della vita: diventare grandi. È la cosa più bella, più entusiasmante, anche se non tutti sono d’accordo, dovete fidarvi di me e dei vostri insegnanti . C’è chi pensa che la parte più bella della vita sia quando uno è piccolo, coccolato, quando non ha troppi problemi, quando tutti lo servono e sono piccole anche le preoccupazioni; quando poi uno deve cominciare a entrare da protagonista nella sua vita, allora lì cominciano i problemi.

Io ho una vicina di casa, una vecchietta appiccicosa, che quando giravo con la carrozzina di mia figlia, si avventava sulla bambina e mi diceva “ Se la goda adesso, perché poi quando cresce son tutti dolori e dispiaceri!” E io pensavo “Vecchia malefica! uccellaccio del malaugurio! perché mi dici questa bugia? questo è falso, perché nella mia esperienza diventare grande non è una fregatura, non ci si perde qualcosa, anzi c’è tutto da guadagnare, c’è tutto da scoprire, è la cosa più bella e non finisce, avete tutta la vita.

Cosa vuol dire diventare grandi? Abbiamo distinto prima diventare grandi come persona nel fisico, in altezza, in larghezza, ma c’è anche diventare grandi come uomini, come donne. Ormai non vi chiamerà più nessuno, spero, “bambino”, “piccolo” “bimbetto”, se non per prendervi in giro: non fate confusione, ormai siete incamminati in quella che sarà la vita dei grandi, la vita adulta.

Che cosa significa diventare grandi? Che cosa c’è in ballo? Siete incamminati in una strada di scoperta: cosa c’è da scoprire? Cosa c’è di più importante da scoprire, per cui è bello diventare grandi? Avete già cominciato a sentire con la vostra intelligenza che c’è tutto un mondo che attraverso la scuola, attraverso le ore di lezione, attraverso i vostri insegnanti, vi è dato perché lo conosciate.

La settimana scorsa mi è capitato di fare un colloquio di iscrizione con una di voi, così le ho chiesto “Senti, ma cosa vuoi fare da grande?”, ascoltando poi le sue interessantissime risposte. Magari qualcuno di voi davvero sarà quello che adesso si immagina, ma per tutti si apre oggi un cammino di scoperta, e scoprire chi siamo è la cosa più sorprendente.

Quest’anno nelle classi prime leggeremo insieme un libro, un libro famoso oggi grazie anche al cinema, si chiama “Lo hobbit”. Nel primo capitolo un saggio e vecchio stregone propone una bellissima avventura a uno hobbit, una creatura un po’ sciagurata, un po’ piccola: ha dei piedoni enormi e ama tutto fuorchè le avventure, ama la pace della casa, ama star bene, insomma ama la tranquillità della vita; arriva questo stregone e dice “Io ti chiamo ad una grande avventura” e lo hobbit ribatte: “Tu stai chiamando proprio me? Hai sbagliato hobbit, hai sbagliato razza!”. Così lo stregone lo incalza “No, guarda,  devi fidarti di me: ci sono molte più cose di quelle che tu possa immaginare, c’è dentro di te qualcosa di molto più grande, di straordinario, di bello, che tu neanche immagini”. E glielo ripeterà anche verso la fine della storia. È proprio questo diventare grandi: conoscere il mondo per scoprire chi siamo noi, quale ricchezza ciascuno di noi porta.

Tante volte in questi anni sentirete una parola l’orientamento. Voi, alle elementari, avete fatto l’orienteering? Vi mettono in un posto buio con una bussola e vi dicono “Auguri!”. Si parlerà di orientamento perché dovete scegliere tra due anni, e non fra cinquanta, quale scuola superiore fare, e poi qualcuno sceglierà l’università: l’orientamento, però, è una parola che fa un po’ paura: sembra che uno si sia già perso, che non sappia più dov’è la direzione. Vi suggerisco allora anche un’altra parola, una parola un po’ strana, la parola vocazione, che, non so perché, si usa solo a catechismo. La vocazione è una chiamata: l’augurio che vi faccio allora è che ogni giorno di questi tre anni, con tutti i vostri insegnanti, in ogni singola ora di lezione, voi possiate cominciare a sentire una chiamata. Sono le cose, il mondo, la realtà tutta che ci chiamano! Di più: c’è qualcuno che in ogni istante della vostra vita vi chiama a conoscere il mondo, a conoscere voi stessi, fino a scoprire chi ha fatto il mondo e chi ha fatto ciascuno di voi.

E allora cosa dobbiamo fare? Studiamo,fatichiamo, ci coinvolgiamo perché ci interessa questa scoperta. C’è una bellissima preghiera che diciamo spesso, si chiama Gloria al Padre. Cosa vuol dire la parola Gloria? Quando uno dice “Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo”, cosa sta dicendo? La gloria militare? La parata trionfale? In un certo senso… Ma la parola Gloria ha a che fare anzitutto con la parola manifestazione, cioè con qualcosa che noi vogliamo vedere. Noi diciamo Gloria perché vogliamo vedere, vogliamo conoscere, vogliamo scoprire  chi ha fatto il mondo e noi stessi. Quando uso la parola vocazione c’è dentro tutto questo: scoprire il mondo, scoprire noi stessi, scoprire chi ha fatto il mondo e ciascuno di noi, scoprire a cosa siamo chiamati. Ma per tutto questo, ripeto, la grande novità è che tutto questo si scopre non con un discorso ma coinvolgendosi in prima persona nel cammino di conoscenza di ogni materia.

Si introducono tante novità rispetto alle elementari, ci sono più insegnanti, più materie, un numero maggiore di attività: tutte queste cose non vi spaventino. L’insegnante non è il nemico, non è uno cattivo che mi dà i voti, che mi vuol far faticare, ma è l’opportunità che voi avete per cominciare a percorrere questo cammino di scoperta. Chiedete ai vostri insegnanti, al Preside, ragione di ogni passo che vi chiedono, cercate di capire il perché e la direzione di questa chiamata.

Nessuno si senta inadeguato.  Non hai voglia di studiare? Beh, sei una persona normale, solo che diventando grande si scopre che la voglia non è l’unica ragione per cui un uomo si muove. “No, io sono troppo basso, non ce la farò mai a prendere 7 nella prova di mini-basket”… Nessuno si senta tagliato fuori da questo cammino di scoperta: è per tutti, per ciascuno preso singolarmente e, altra cosa importante, è per tutti insieme. Nessuno diventa grande nella conoscenza e nell’intelligenza da solo. Il vostro compagno è una risorsa, è indispensabile per diventare grandi.

Una cosa che mi fa veramente arrabbiare è quando uno di voi fa una domanda e gli altri pensano “è il momento della pausa!” Ma se un compagno alza la mano vuol dire che si sta mettendo in relazione con quello che noi proponiamo, che sta facendo un passo importantissimo e la cosa interessante è che quel passo è indispensabile per tutti. Per questo, ragazzi, non esistono domande stupide, se uno vuole sapere, se uno vuole conoscere, se uno vuol diventare grande, tutto serve, tutto conviene chiedere.

Come è bello scoprire nella propria di difficoltà personale di poter essere accompagnati. Anche se sei nato genio della matematica o dell’Italiano, senza un insegnante e senza i tuoi compagni quel talento andrebbe sprecato. E  allora accelerate nel cammino di conoscenza questo investimento di  fiducia nei confronti dei vostri compagni, dei vostri insegnanti e aggiungo anche verso di me.

Il Preside ha una presidenza, perciò uno dice “mah, spero di entrarci il meno possibile!”. Sì, da un certo punto di vista capisco quello che intendete, ma mettiamola in un’altra ottica, guardiamola da un altro punto di vista: il Preside che ci sta a fare in presidenza? Punire i cattivi? beh, non sarebbe un bel lavoro, non l’avrei scelto, sinceramente. Il Preside sta lì per raccogliere il racconto del vostro cammino e per aiutare i passi di ciascuno.  Per cui, oltre a essere mandati dal Preside, venitelo a trovare, a dire “ho scoperto, ho imparato”. Sono, al pari di tutti i vostri insegnanti, a vostra disposizione. Non siate piante grasse. Le piante grasse sono le mie preferite del regno vegetale: mi posso dimenticare che esistono perché, tendenzialmente, non muoiono, continuano a crescere. Ma la pianta non è che impara, e questo per noi non è l’ideale. L’ideale è che uno chiede, che c’è, che è presente, che osserva, che si coinvolge, che pensa, che riflette, che agisce.

A questo punto, e la cosa mi piace perché assume anche un valore simbolico, facciamo l’appello. Pensiamo a quello che ho detto prima: l’appello, che non a caso si fa ogni mattina, cosa significa? Che ogni mattina ciascuno di noi e ciascuno di voi dice: io ci voglio essere, io ci sto, io, voglio scoprire, voglio conoscere, non voglio perdermi l’avventura più grande della vita: l’avventura di diventare grande.

Questa è la nostra promessa: crescere nella conoscenza, crescere come uomini è bello. Non crescete come piante grasse!
Buon cammino a tutti!
 
D. Gomarasca

 
 
 
 
 

26 settembre 2013

Ognuno ha un peso da portare con sè....

Ognuno ha un peso da portare con sè
non dirmi che tu non lo sai
Ma più ci pensi e più succede che poi
finisce che non ce la fai
Sospesi in volo su una grande giostra al suono della musica
giriamo io e te
giriamo io e te
La stessa vita così amara qualche istante fa
se solo tu vuoi poi diventa più dolce che mai

Non lo sai che quando sorridi
è un attimo
E così i pensieri più tristi
svaniscono
A che serve farsi la vita difficile
se alla fine è già complicata così com'è

Ognuno ha un po' amore dentro si sé
non dirmi che tu non ce l'hai
Ma più ne chiedi e più non serve perché
dipende da quanto ne dai
E poi lasciarti andare fino in fondo alla tua solitudine
se è quello che vuoi
se è quello che vuoi
Ma finché al mondo c'è qualcuno che ci tiene a te
ricorda se puoi quello è il bene più grande che hai

Non lo sai che quando sorridi
è un attimo
e così i pensieri più tristi
svaniscono
a che serve farsi la vita difficile
se alla fine è già complicata così com'è

25 settembre 2013

Arriva l'autunno e fa buio presto..




Quante gocce di rugiada intorno a me
cerco il sole, ma non c'è.
Dorme ancora la campagna, forse no,
è sveglia, mi guarda, non so.
Già l'odor di terra, odor di grano
sale adagio verso me,
e la vita nel mio petto batte piano,
respiro la nebbia, penso a te.
Quanto verde tutto intorno, e ancor più in là
sembra quasi un mare d'erba,
e leggero il mio pensiero vola e va
ho quasi paura che si perda...
Un cavallo tende il collo verso il prato
resta fermo come me.
Faccio un passo, lui mi vede, è già fuggito
respiro la nebbia, penso a te.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono solo, solo il suono del mio passo.
e intanto il sole tra la nebbia filtra già
il giorno come sempre sarà.

23 settembre 2013

Parlando di Frida


 
Un sabato pomeriggio parlando con Lucrezia di Frida...
Nella saliva
nella carta
nell'eclisse.
In tutte le linee
in tutti i colori
in tutti i boccali
nel mio petto
fuori, dentro
nel calamaio - nelle difficoltà a scrivere
nello stupore dei miei occhi
nelle ultime lune del sole
(il sole non ha lune) in tutto.
Dire "in tutto" è stupido e magnifico.
Diego nelle mie urine - Diego nella mia bocca
nel mio cuore - nella mia follia - nel mio sogno
nella carta assorbente - nella punta della penna
nelle matite - nei paesaggi - nel cibo - nel metallo
nell'immaginazione.
Nelle malattie - nelle rotture - nei suoi pretesti
nei suoi occhi - nella sua bocca
nelle sue menzogne.
Frida Khalo
 

21 settembre 2013

STRADE NUOVE



Ad Anna

Sporcati piedi e caviglie
con la polvere di strade nuove.
Strade che non conosci,
incutono timore per l'ignoto
che nascondo.
Guardati indietro, riporta
alla tua memoria strade
già percorse.
Cammini faticosi ti hanno
portata lontano da
dove sei partita.
Con occhi incantati hai visto
pozze di umanità dove specchiarti,
come acqua fresca dopo
acquazzoni estivi.
Cieli tersi apparsi dopo folate
umide di vento, a spazzare
nuvole di bambagia bianca.
Rumori di gente indaffarata,
del via vai incessante, brusio di vita.
Occhi di bimbi sognanti,
risate gioiose saltellando
sulle campane dipinte
per terra con gessetti improvvisati.
Potpourri di profumi,
fresco di bucato steso al sole,
ammaliante di donna che sboccia,
seducente di sguardo virile,
speziato di cibi lontani e vicini,
fragrante di pane sfornato e torte di mele.
Hai sentito l'odore pungente,
ripugnante di sporco ed incuria,
bruciante delle ingiustizie
dei vilipesi, dei derelitti,
degli ultimi nelle strade,
nel buio inquietante della notte.
Strade percorse tra la folla,
anche quando, accanto a te,
unica compagnia pareva fosse solo la solitudine.
Hai scoperto che non sei mai sola,
qualcuno veglia su di te,
come sempre ha vegliato,
ancora ti resterà accanto.
Ha promesso che mai ti lascerà:
"Io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine dell'età presente"
Laverà lui la polvere
che ti sporcherà piedi e caviglie
nelle nuove strade che ancora attraverserai.

Rosalba

19 settembre 2013

Donna deserto

 

 

Cammini in un tempo che non esiste
nella polvere della terra.

Terra i tuoi occhi color del magnete.
Parli la lingua del fuoco e ascolti il silenzio di anni secolari.

Strappi radici dure ferendoti le mani.
Ti vesti di nostalgia
balsamo del tuo cuore.

Balli con le visioni della notte.
Piangi scottandoti il viso.

Donna deserto.

Lucrezia

18 settembre 2013

In prigione.....in prigione....




Tu che sei innocente
tu che non hai fatto niente
tu che ti lamenti
perchè ti hanno imbrogliato
allora adesso senti:

Tu andrai in prigione
in prigione, in prigione
proprio tu, in prigione
e che ti serva da lezione!

Tu che hai rispettato
le leggi dello stato
ti senti sfortunato
ti senti perseguitato, offeso
amareggiato, allora:

In prigione, in prigione!...

Tu che hai calcolato
tu che hai provveduto
tu che non hai mai sgarrato
tu che alla giustizia
ci hai sempre creduto

Tu andrai in prigione!

Tu che indaghi sempre
sul conto della gente
e non ti fermi alle apparenze
ma analizzi, scavi e poi
sputi le sentenze, allora:

In prigione, in prigione!

Tu che sei avvocato
serio e preparato
ridi e scherzi poco
ma conosci tutte le regole
del gioco, allora:

In prigione, in prigione!

e tutti i professori
medici e dottori
notabili e avvocati
e tutti i capi
dei sindacati, tutti!

Tutti quanti in prigione!

Quanta gente onesta
tutta preparata a festa
che si avvia verso il mare
li dovete bloccare, fermare
catturare, si

per madarli in prigione!
in prigione, in prigione
tutti quanti in prigione
e che vi serva da lezione!

In prigione, in prigione
in prigione, in prigione!
E non dò spiegazione!

coro anche tu in prigione
tu vuoi fare il santone
anche tu in prigione
anche tu in prigione!

no lasciatemi!
c'è un errore
io sono il giudice
lasciatemi, c'è un errore
no, no, c'è un errore!...

16 settembre 2013

Chi era Abramo?


Si fa un gran parlare in questo periodo, per ovvi motivi, della guerra……….siamo alle solite…….cristiani, musulmani, ebrei….e il Papa…che incita alla pace ed alla pratica del digiuno come protesta contro ciò che sta accadendo in Siria.

La maggior parte di noi è di formazione cattolica, ma in realtà conosciamo poco o nulla della storia delle religioni, anche della nostra…se non qualche reminiscenza scolastica e nulla più…… Sarebbe interessante riprendere gli antichi testi, informarsi, cercare di capire .... la religione può dare avvio alla pace …anziché alla guerra? A volte basterebbe conoscere solo un po' di più per farsi un’opinione corretta dei fatti. Prendiamo ad esempio il tanto e sempre citato profeta Abramo. Sapete chi è? E cosa pensano di lui le tre grandi religioni monoteiste?

Abramo, il grande patriarca è la figura che più di tutte unisce cristiani, musulmani, ed ebrei….

Come la Bibbia racconta, da Abramo nacquero Ismaele, dal quale sono discesi gli arabi o israeliti, e Isacco, da cui vennero gli ebrei e i cristiani. “Nella Bibbia si sancisce quindi la fratellanza fra ebrei, cristiani e musulmani”(Jean Louis Ska).

Per i musulmani, Abramo è il primo grande patriarca “Ibrahim”, per gli ebrei è stato il primo uomo ad essere chiamato “ebreo”e per i cristiani “il primo patriarca cristiano”.

Abramo è “padre di una moltitudine”: ebrei, cristiani e musulmani. In Lui tutte e tre le principali fedi monoteistiche si riconoscono.

E’ nel nome di uno stesso Dio, che cristiani, musulmani, ebrei pregano, guardano al futuro, sperano e si disperano, chiedono aiuto e ringraziano per ciò che si è ricevuto, ed è nel nome dello stesso Dio che si fa la guerra, ci si odia e si uccide…

Il mondo è in travaglio, e siamo sull’orlo di un baratro, un’altra volta. La storia, il nostro passato, il nostro futuro, tutto concentrato in circa duemila Km tra il Nilo, l’Eufrate, il Giordano…tra discendenti di una stessa progenie….

Forse sono riflessioni inutili, o sbagliate, ma può essere che il Papa, richiamando i cristiani al digiuno abbia voluto sottolineare come sia fondamentale trovare elementi di unione e di comunione fra tutti, i musulmani con il “Ramadan” “il digiuno”  e gli ebrei con il “Kippur” sempre “digiuno", l'arma più antica di protesta, prima delle armi chimiche, prima del nucleare, tutti insieme contro la guerra, cercando di sciogliere il groviglio nato da un odio religioso che rivendica “l’unico vero Dio”.

Rimarchiamo per una volta le somiglianze, gli elementi che fanno parte della storia di tutti, non importa se ebrei, cristiani o musulmani, siamo tutti uomini.

12 settembre 2013

L'AUTUNNO, LA MAIONESE E LA CURCUMA....



In questo momento i colori che ci circondano iniziano a cambiare, l'estate con la sua luce e la sua esuberanza è al termine e l'autunno si avvicina con le sue calde tonalità, non più sfacciate ma avvolgenti, sfumature di marroni, rossi, giallo ocra, arancione come il sole che tramonta. Un ciclo si sta per chiudere ed un altro sta per iniziare. La spezia che associo a questo periodo dell'anno è la curcuma, di colore giallo arancio brillante, la cui radice ricca di proprietà benefiche si sviluppa nel sottosuolo.
 
"Mi avvicino a lei e sento subito l'odore della curcuma, anche se mi ci vuole un attimo prima che il cervello ne registri l'aroma sottile, lievemente amaro come quello della pelle e quasi altrettanto familiare. Tilo mi invita ad accarezzarne la superficie con la mano: "Lascia che la polvere gialla ti infarini il palmo e i polpastrelli: è polvere d'ala di farfalla." Poi anche lei fa scivolare il palmo della mano sulla superficie serica della spezia e l'avvicina al volto, strofinandosi le gote, la fronte e il mento. "Per millenni prima dell'inizio della storia, le spose - e le fanciulle che aspiravano a maritarsi - hanno fatto lo stesso. È la spezia della bellezza, più soffice del raso. Se la tengo tra le mani, la curcuma mi parla, con una voce di crepuscolo che riecheggia l'inizio dei tempi. La curcuma, chiamata anche halud, giallo, il colore dell'alba e dello squillo delle conchiglie suonate sul far del giorno. La curcuma capace di conservare, di mantenere sano il cibo in una terra di calore soffocante e di fame. La curcuma, spezia della fortuna, spalmata sulla fronte dei neonati in segno di buon auspicio e strofinata lungo gli orli dei sari nuziali".

Divakaruni Chitra B.

 Così una ricetta facile facile, buonissima...in 10 minuti è pronta...

MAIONESE VEGETALE
 
Ingredienti per un vasetto circa

 
  100 ml latte di soia non dolcificato

  un quarto di limone spremuto (ma togliete i semi!)

  2 cucchiaini di senape

  2 pizzichi di sale

  olio di mais q.b. (ne servira' circa 140 grammi)

  curcuma q.b.


Si mettono tutti gli ingredienti, tranne l'olio, nel bicchiere del minipimer, e si inizia a frullare. Si aggiunge l'olio a filo, ma si può anche aggiungerne un po', frullare, fermarsi, aggiungerne un altro po', frullare, fermarsi e così via fino a che non si monta, ed è impossibile che ciò non avvenga.

Il minipimer va usato muovendolo in verticale, in modo da mixare bene. L'olio va aggiunto fino a che la maionese raggiunge la consistenza desiderata, più la si vuole densa, più si aggiunge olio.


Mettendolo un po' alla volta ci si può fermare quando si vuole.


Io ho provato a farla anche con il latte normale e viene uguale uguale!!!

 



 


10 settembre 2013

FIGLIO EVITATO




... è nello sguardo chiaro
che potresti avere, è nel tuo guardarmi
furtivo, mentre sono distratto,
che mi capia di pensarti,
figlio
che non ho voluto per deliberato amarti

- potrebbero, se tu fossi esistito
essere le nostre vite
strette l'un l'altra
come piccole scimmie freddolose
al vento di questa sera
... ti avrei al mio fianco a camminare
in false distanze, scorci
di pensiero anch'esso di prospettico inganno
... o forse
mi potresti persino detestare

- avresti potuto
essere il mio orgoglio - dicono -
ma il mio orgoglio è l'averti risparmiato
l'ora della penombra
che affila la lama:
tu solo puoi dire
se fu errore e in che misura
non averti dato in pasto alla specie
... tu solo capire
che con la forza del vuoto ti ho piena,
mia statuina sacra,
mio geranio a cui do acqua
alla primora del giorno,
e giorno non c'è che mi dimentichi

... ci troveremo là dove si sta nel prima
e al prima si torna,
rispondimi: perché avrei dovuto
infliggerti devianze di una via
per un calvario breve?
- mi vedrai un giorno apparire,
mi lascerai, io spero,
il posto a sedere
accanto a te: ricordati, se puoi,
di toccarmi almeno le mani
nelle mie mani le piaghe
del non averti
mai accarezzato la fronte da vivo

... delle primavere, delle donne che avresti
potuto avere
è fatta questa vastità della mia solitudine;
mi vanto solo di questo:
non ho buttato nel pattume nessuno.


Alberto Bevilacqua

09 settembre 2013

CONSIDERO VALORE....




 
 Considero
Considero valore ogni forma di vita,
la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto,
un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e’ risparmiato,
due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà piu’ niente,
e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido,
chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordarsi di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’e’ il nord,
qual’e’ il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo,
la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare
e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.
 
Erri de Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi (2002) 

08 settembre 2013

La donna che canta





  “La donna che canta” (Incendies) è un film del 2010 diretto da Denis Villeneuve, tratto da un'opera teatrale di Wajdi Mouawad.
Ha ricevuto la nomination come miglior film straniero ai premi Oscar 2011.
 La storia si svolge in Medio-Oriente, l’autore ne ha volutamente omesso il luogo esatto  Non è solo la storia della protagonista principale, ma anche dell'orrore delle guerre e delle loro vittime, che sono i bambini, gli uomini, le donne. La madre è, qui, una vittima quanto il suo torturatore. Lo scrittore Wajdi Mouawad, ha deliberatamente occultato i nome dei luoghi, delle città e delle nazioni. 
Questa finzione si basa sulla vera vita di Souha Bechara.
Il film ha inizio in Canada in uno studio legale dove il notaio Jean Lebel legge ai due gemelli Jeanne e Simon le ultime volontà della madre Nawal Marwan; ella chiede ai suoi figli di consegnare due lettere, una per il padre (che essi non hanno mai conosciuto e che ritenevano morto in guerra) e una per il loro fratello (di cui essi ignoravano l'esistenza).........
E' un film che consiglio di vedere, in particolare in questo momento, perchè non c'è nulla di più pericoloso di una  guerra ....e noi ci stiamo entrando.....

PERCHE' LA GUERRA?








La lettera di Einsten:

Caro Signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.

Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.

Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?

Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.

Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.

Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.

So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo

Albert Einstein
La risposta di Freud:

Caro signor Einstein,

Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.

I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo.

Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.

La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più avanti.

Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.

Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?

Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.

Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.

Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.

Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?

Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.

Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.

L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.

Vede che, quando si consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.

Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno delusa.

Suo Sigmund Freud