La
proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto
internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una
persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema
qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei
circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più
urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un
modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo
che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è
divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta,
eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è
purtroppo approdato a qualcosa.
Penso
anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e
praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza
in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di
persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in
grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a
me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a
discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto,
riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei
giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni
più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana
per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici
di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui
tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto
che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito
politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera
semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema:
gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di
comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma
l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la
decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di
attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare
le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è
un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie
decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una
realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e
le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella
comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella
misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del
proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una
organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità
incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue
sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale
implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua
libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro
che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso,
nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare
questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti
fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono
evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria
a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio
di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi
mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro
che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione
sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi,
soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la
loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto
fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito
di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata
riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una
guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non
escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro
professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro
stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta
ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in
volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e
perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e
sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere
una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i
mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di
odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente,
emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e
portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo
del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può
essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere
l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere
alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle
cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta
“intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive,
poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la
vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina
stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di
conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che
l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso
alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi
a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la
mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo
e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i
mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti
armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a
tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e
imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei
esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti
scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e
validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein
|
La
risposta di Freud:
Caro
signor Einstein,
Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee
su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di
altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un
problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il
fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso,
in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha
pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana
dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa
dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra -
incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta
risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la
domanda non come ricercatore naturale e come fisico, bensì come amico
dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni
così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse
l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria della
guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia
proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della
prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma
anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran
parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io
viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò
che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo
le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di
partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza”
con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per
noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato
dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come
ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza
difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente noto
come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio
decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale,
di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a
dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte
cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica.
Ma questa è una complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una
piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse
appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad
attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante
l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente.
Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a
prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della
lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che
subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a
desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel
modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario
definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che
l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo
destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione
del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti.
All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può
essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia
in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che
ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora
in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in
agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della
violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è
stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla
violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento
che lo strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più
deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di
molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in
opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la
potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro
chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi
scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la
violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si
compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una
condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se
essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e si
dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo
personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la
violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere
mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che
prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza
delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di
violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di
interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami
emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del
gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla
violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che
viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto
sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di
individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora
fino a che punto debba essere limitata la libertà di ogni individuo di usare
la sua forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva
sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà
le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende
elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto,
in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si
trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora
espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa, le leggi
vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a
quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità
due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In
primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra
delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto
a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per
procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti,
dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto
uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole
quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno
della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori
storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti
di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è
pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla
guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove
testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo
ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che
si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una
collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in
considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire
evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le
coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima
terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che
in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo
aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie
ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità
più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono
decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si
risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una
parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di
conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità,
altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della violenza in
diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di
ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento giuridico
riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero ai paesi
mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di
ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita,
fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia
ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione
dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più
vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili
ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i
successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create
si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti
unite forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare
soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio
i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso
inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti
questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue
guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui
Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è
possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità
centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi.
Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una
simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La
prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è
stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non
è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e
può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati -
gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò
avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società
delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un
tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse
mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a
determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di
solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che
tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami
emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano
identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è
escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella
hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni
ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si
può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione
l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere
qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente
espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza
forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma
ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse
componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una
città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico
persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i
Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento
a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle
loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si
possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che
gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in
tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale
del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni
caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a
prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di
sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato
all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il
diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare
a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si
meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume
che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla
distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non
posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza
di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le
sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria
delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e
molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle
che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche
(esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali,
estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle
che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte
nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica
della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è
originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che
interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo
rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono
parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro
concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un
tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi
diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta
o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la
pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che
debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo
stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della
pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto.
La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni
ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni
umane rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che
l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve
essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono
concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile
l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G.
C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici;
ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel che fosse come
fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi
per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i trentadue venti e
indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o
‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra,
è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti,
nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono
taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e
distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e
della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto
che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e
ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando
sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i
motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre
volte, trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i
motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi
recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla
prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei
intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota
di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci
siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione
è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia
inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte,
mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita.
La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di
certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge,
per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della
pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e
noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e
patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo
perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale
con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è
affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo
diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste
forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente
e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a
tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si
deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la
resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una
spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie
di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni
scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei,
nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la
conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive
degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a
profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita
scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono
sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su
questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far
scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni
materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i
membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono
diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non
ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si
tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività
umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione
nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo
facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra.
Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva,
contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros.
Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la
guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni
che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con
un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui
parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo
come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro
tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca
solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di
questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto
della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per
combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e
ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e
seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di
un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si
sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si
dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora
all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza
di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle
quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le
intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla
Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di
dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana
che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione.
Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così
tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni
probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire
indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun
rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che
la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici
urgenti, non ne vien fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si
cerca di affrontare il pericolo con i mezzi che sono a portata di mano.
Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non
solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro
la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle
molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura,
pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non
inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come
questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La
risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra
annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni
che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri
individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e
altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più
alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani,
a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo
sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra
così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra
non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità.
Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può
chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del
singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di
guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà
altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla
guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è
questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro,
credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che
non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo
per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento
con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio
dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo
dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo:
civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona
parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi
caratteri facilmente visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano,
giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si
moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati
della popolazione che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo
si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio
comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati
con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le
modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece
vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo
delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche
di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili;
esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia
etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà,
due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia
a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con
tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra
contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è
imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di
essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un
rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di
un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E
mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro
rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si
può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due
fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti
di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per
quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo
dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la
guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni l’hanno
delusa.
Suo
Sigmund Freud
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