“Non ho mai trovato il coraggio
di chiedertelo, ma tu…..” e scosse la testa, con gli occhi chiusi, la bocca
contratta in una smorfia scorata. “Come hai potuto? Cos’avevi tu, in comune con
quella gente?”
In quell’istante mi resi conto
che, per incredibile che fosse, né mia madre, né i miei fratelli né la
direttrice del carcere, né le guardie, né la superiora, né le suore, compresa
suor Anunciacion, si erano mai interessati abbastanza a me da farmi quella
domanda. Era come se tutti loro fossero convinti che io non potessi avere motivo
per voler invertire la marcia cambiare pelle, passare al nemico, fino a quel punto mi odiavano e mi
temevano, o di così poco avevano bisogno per condannarmi. Non avevo una
risposta pronta, ma chiusi per un attimo gli occhi, ricordai quella sera di
settembre del 1936, le parole di Pedro Palacios, la cucina della mia casa di
Montesquinza e allora spegnere la radio, alzarmi, raggiungere mia cognata,
abbracciarla forte, mi risultò assai facile. Tutto Adela, avevo in comune
tutto! Mi staccai da lei per guardarla e le presi la testa tra le mani perché smettesse
di scuoterla, di muoverla a desta e a sinistra. “Parlavamo di libertà, di
umanità, del futuro, erano così giovani, così coraggiosi….Non avevano niente ed
erano disposti a dare tutto, a morire anche per me….non poteva non riguardarmi”.
Quella notta, Adela e io restammo sveglie, a parlare per ore in biblioteca. Le
raccontai la mia vita e, benché fosse un’anima semplice, lei capì tanto bene
che non si azzardò mai più a chiedere perché, in quella sera di guerra di
settembre, fossi uscita dalla penombra del corridoio per entrare nella luce
della cucina.
“Salve” In quell’istante era
bastato l’istinto a guidare i miei passi. “Vi spiace se mi siedo qui ad
ascoltare?” Nessuno, neppure Virtudes, rispose subito. Guardandomi attorno, per
un attimo, mi sentì un’intrusa, ma il sorriso raggiante di Pedro s’impose in
tempo su undici facce indecisi, undici bocche aperte congelate dalle stupore.
“Certo che no” Mentre si alzava
per cedermi la sedia, mi scrutò dalla testa ai piedi e il suo sorriso si
allargò “Benvenuta”. Poi si appoggiò alla parete e continuò a parlare, a
spiegare che in una guerra antifascista si combatte tanto al fronte quanto nella
retroguardia, che sono necessari tutti, i soldati in trincea, gli operai in
fabbrica e i militanti per le strade, ad alimentare il fervore della gente, la
fede del popolo nello sforzo della guerra e il sacrificio che conduce alla
vittoria e, mentre lo ascoltavo, capii finalmente perché il mio stomaco era
vuoto e che davanti a me non si aprivano più due strade, perché me ne restava
una sola, darmi e dare, con me, tutto quello che avevo, abbandonarmi fino in
fondo, rischiare molto più di un’opinione, più di una simpatia o di un gesto
isolato, quel mare di precauzioni, quello starci e non starci, essere senza
essere, pensare senza sentire, in cui avevo navigato per tutta l’estate. Sembrava
una decisione grave, complessa,e invece fu facilissima, perchè in realtà l’avevo
già presa da tempo, avevo solo bisogno di capirlo. Avevo solo bisogno di
sentire una voce che sbriciolava come mollica di pane quella che sino ad allora
era stata la realtà, perché il guscio del mio passato, incapace di conservare
la sua farsa di merletti bianchi davanti alla potenza travolgente di una vita
nuova, saltasse in aria al contatto con le parole che pronunciava.
“So che vi sto chiedendo molto, ma
vi chiederò anche di più” e Pedro parlava per i suoi compagni, ma guardava me. “Vi
chiederò tutto. Bisogna dare tutto, senza cedere allo sconforto, al dolore alla
stanchezza, per riuscire ad avere tutto. E non possiamo accontentarci di niente
di meno”……………
Almudena
Grandes
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