6
agosto 1945
All’orizzonte il cielo era infuocato. La sfera del sole che sorgeva
faceva sembrare il mare un’enorme estensione di metallo fuso. Viste contro
questo accecante mare di fiamme, le palme dell’isola di Tinian si stagliavano
nere, come carbonizzate.
Anche gli uomini attorno al potente quadrimotore B-29, sembravano nere ombre dell’averno. L’aereo era come un mostro alato della preistoria, che portava nel ventre una bomba di specie mai vista. I suoi fasci di nervi erano i cavi di comando. I suoi motori gli davano la forza di migliaia di cavalli. Invece di un cervello, dozzine di strumenti pensavano per il mostro-macchina. Erano stati inventati da uomini e venivano maneggiati da uomini.
L’equipaggio dell’aereo era pronto. Gli aviatori stavano in riga davanti ai generali Spaatz e Groves, che li guardarono l’uno dopo l’altro e si rivolsero a ciascuno di essi, chiamandoli col grado ed il nome. Al colonnello Tibbets, che aveva il comando del B-29, il comandante in capo Spaatz prese la mano, e la tenne stretta.
“Colonnello, le ricordo ancora una volta che il suo incarico è come un’alta onorificenza. Il suo nome in futuro sarà scritto nei libri di storia del nostro Paese. Ho la facoltà di concederle, in occasione di questa azione d’importanza unica, di dare un nome all’aereo che guiderà. Pronunci questo nome a voce alta.”
Sorpreso dallo straordinario onore, Tibbets socchiuse gli occhi. Il suo sguardo scivolò oltre il viso del generale e si perse nelle profondità del cielo. Passarono alcuni secondi. Nel volto dell’aviatore i tratti, prima tesi e duri, si addolcirono. Un’espressione commossa, quasi infantile, era impressa ora sul suo viso. Lo sguardo dell’ufficiale di diresse nuovamente negli occhi del superiore.
“Signor generale: se mi è permesso, questo aereo porterà il nome di mia madre: Enola Gay”.
A voce più alta, il generale Spaatz ripeté il nome: “Enola Gay”. Poi ordinò al colonnello di seguirlo nella cabina di comando. E solo là Tibbets seppe il nome dell’obbiettivo della bomba. Il generale gli indicò un punto sulla carta di volo. Quel punto indicava una città: Hiroshima.
Il colonnello Tibbets, comandante del B-29 “Enola Gay”, guidò l’apparecchio a 8000 metri d’altezza, verso il centro della città di Hiroshima. Nello spazio riservato al carico, l’armiere, maggiore Farabee, mise in funzione il meccanismo di sganciamento della bomba.
Poi mirò il bersaglio.
La bomba cadde.
Con un miagolio infernale il mostro precipitò giù.
Gli uomini dell’equipaggio dell’ “Enola Gay” inforcarono subito, secondo gli ordini ricevuti, neri occhiali protettivi davanti ai vetri della maschera per l’ossigeno. Nessuno di loro sapeva che cosa sarebbe accaduto il minuto successivo. Essi eseguivano soltanto un ordine preciso.
Ed aspettarono, con le membra così irrigidite da parere insensibili. Tendevano l’orecchio, e credevano di sentire l’urlo della bomba che precipitava. Ma era soltanto il pulsare del loro stesso sangue. E tutti guardavano fissi nel vuoto, senza vedere, con i volti impietriti dal presentimento di una catastrofe mai vista ancora sulla faccia della terra.
Per quanto forte battesse il polso del colonnello Tibbets, il suo orologio seguitava indisturbato a scandire il tempo con le sue rotelline; un secondo dietro l’altro si trasformavano in passato. Le lancette segnavano le otto, quattordici minuti e trentacinque secondi.
Alla bomba era attaccato un paracadute che, per mezzo di un apparecchio appositamente studiato, si aprì come previsto.
La bomba oscillò, sempre scendendo verso terra, appesa al paracadute.
Le lancette dell’orologio segnarono le otto, quattordici minuti e cinquanta secondi.
La bomba si trovava a 600 metri dal suolo.
Alle otto e quindici minuti era scesa di altri cento metri, quando altri apparecchi inventati dagli scienziati fecero scattare l’accensione all’interno della bomba: dei neutroni provocarono la disintegrazione di alcuni atomi di un metallo pesante, l’uranio 235. E questa disintegrazione si ripeté in una reazione a catena di sbalorditiva velocità.
In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, in un bagliore bianco, abbagliante.
Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento.
E questa palla di fuoco irradiò milioni di gradi di calore contro la città di Hiroshima.
Anche gli uomini attorno al potente quadrimotore B-29, sembravano nere ombre dell’averno. L’aereo era come un mostro alato della preistoria, che portava nel ventre una bomba di specie mai vista. I suoi fasci di nervi erano i cavi di comando. I suoi motori gli davano la forza di migliaia di cavalli. Invece di un cervello, dozzine di strumenti pensavano per il mostro-macchina. Erano stati inventati da uomini e venivano maneggiati da uomini.
L’equipaggio dell’aereo era pronto. Gli aviatori stavano in riga davanti ai generali Spaatz e Groves, che li guardarono l’uno dopo l’altro e si rivolsero a ciascuno di essi, chiamandoli col grado ed il nome. Al colonnello Tibbets, che aveva il comando del B-29, il comandante in capo Spaatz prese la mano, e la tenne stretta.
“Colonnello, le ricordo ancora una volta che il suo incarico è come un’alta onorificenza. Il suo nome in futuro sarà scritto nei libri di storia del nostro Paese. Ho la facoltà di concederle, in occasione di questa azione d’importanza unica, di dare un nome all’aereo che guiderà. Pronunci questo nome a voce alta.”
Sorpreso dallo straordinario onore, Tibbets socchiuse gli occhi. Il suo sguardo scivolò oltre il viso del generale e si perse nelle profondità del cielo. Passarono alcuni secondi. Nel volto dell’aviatore i tratti, prima tesi e duri, si addolcirono. Un’espressione commossa, quasi infantile, era impressa ora sul suo viso. Lo sguardo dell’ufficiale di diresse nuovamente negli occhi del superiore.
“Signor generale: se mi è permesso, questo aereo porterà il nome di mia madre: Enola Gay”.
A voce più alta, il generale Spaatz ripeté il nome: “Enola Gay”. Poi ordinò al colonnello di seguirlo nella cabina di comando. E solo là Tibbets seppe il nome dell’obbiettivo della bomba. Il generale gli indicò un punto sulla carta di volo. Quel punto indicava una città: Hiroshima.
Il colonnello Tibbets, comandante del B-29 “Enola Gay”, guidò l’apparecchio a 8000 metri d’altezza, verso il centro della città di Hiroshima. Nello spazio riservato al carico, l’armiere, maggiore Farabee, mise in funzione il meccanismo di sganciamento della bomba.
Poi mirò il bersaglio.
La bomba cadde.
Con un miagolio infernale il mostro precipitò giù.
Gli uomini dell’equipaggio dell’ “Enola Gay” inforcarono subito, secondo gli ordini ricevuti, neri occhiali protettivi davanti ai vetri della maschera per l’ossigeno. Nessuno di loro sapeva che cosa sarebbe accaduto il minuto successivo. Essi eseguivano soltanto un ordine preciso.
Ed aspettarono, con le membra così irrigidite da parere insensibili. Tendevano l’orecchio, e credevano di sentire l’urlo della bomba che precipitava. Ma era soltanto il pulsare del loro stesso sangue. E tutti guardavano fissi nel vuoto, senza vedere, con i volti impietriti dal presentimento di una catastrofe mai vista ancora sulla faccia della terra.
Per quanto forte battesse il polso del colonnello Tibbets, il suo orologio seguitava indisturbato a scandire il tempo con le sue rotelline; un secondo dietro l’altro si trasformavano in passato. Le lancette segnavano le otto, quattordici minuti e trentacinque secondi.
Alla bomba era attaccato un paracadute che, per mezzo di un apparecchio appositamente studiato, si aprì come previsto.
La bomba oscillò, sempre scendendo verso terra, appesa al paracadute.
Le lancette dell’orologio segnarono le otto, quattordici minuti e cinquanta secondi.
La bomba si trovava a 600 metri dal suolo.
Alle otto e quindici minuti era scesa di altri cento metri, quando altri apparecchi inventati dagli scienziati fecero scattare l’accensione all’interno della bomba: dei neutroni provocarono la disintegrazione di alcuni atomi di un metallo pesante, l’uranio 235. E questa disintegrazione si ripeté in una reazione a catena di sbalorditiva velocità.
In un milionesimo di secondo, un nuovo sole si accese nel cielo, in un bagliore bianco, abbagliante.
Fu cento volte più incandescente del sole nel firmamento.
E questa palla di fuoco irradiò milioni di gradi di calore contro la città di Hiroshima.
In questo secondo, 86.000 persone
arsero vive.
In questo secondo, 72.000 persone subirono gravi ferite.
In questo secondo, 6.820 case furono sbriciolate e scagliate in aria dal risucchio di un vuoto d’aria, per chilometri d’altezza nel cielo, sotto forma di una colossale nube di polvere.
In questo secondo, crollarono 3.750 edifici, le cui macerie si incendiarono. In questo solo secondo, raggi mortali di neutroni e raggi gamma, bombardarono il luogo dell’esplosione per un raggio di un chilometro e mezzo.
In questo secondo, l’uomo che Dio aveva creato a propria immagine e somiglianza, aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo per annientare se stesso.
Il tentativo era riuscito.
In questo secondo, 72.000 persone subirono gravi ferite.
In questo secondo, 6.820 case furono sbriciolate e scagliate in aria dal risucchio di un vuoto d’aria, per chilometri d’altezza nel cielo, sotto forma di una colossale nube di polvere.
In questo secondo, crollarono 3.750 edifici, le cui macerie si incendiarono. In questo solo secondo, raggi mortali di neutroni e raggi gamma, bombardarono il luogo dell’esplosione per un raggio di un chilometro e mezzo.
In questo secondo, l’uomo che Dio aveva creato a propria immagine e somiglianza, aveva compiuto, con l’aiuto della scienza, il primo tentativo per annientare se stesso.
Il tentativo era riuscito.
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